Tutti gli articoli di Pippo Biondo

Manifesto x Bersani

All’opera utile ma circoscritta del governo ‘tecnico’ deve seguire, dopo le elezioni, una fase apertamente politica, legittimata dai cittadini, di ricostruzione economica sociale e civile del nostro Paese, che deve trovare le forze per uscire dai disastri dell’era Berlusconi.
Davanti alle esigenze imponenti a cui deve fare fronte, il sistema politico è, anche per sua responsabilità, delegittimato, debole, poco capace di esprimere iniziative, tanto che se ne ipotizzano avventurose proposte di azzeramento totale. L’opinione pubblica è indignata ed esasperata per l’inefficienza e la corruzione della politica, per gli scandali e gli sprechi, e si affida a soluzioni astensionistiche o populistiche. La tenuta della democrazia è sfibrata anche dalle difficoltà crescenti che i cittadini incontrano nella loro vita quotidiana, a cui la politica non dà risposta.
L’unico partito non personale, non leaderistico, non padronale, non occasionale, è il Pd: la sola forza di rilievo che, oltre a essere inserita a pieno titolo nel sistema politico e ideale europeo, ha radici reali nella storia democratica del Paese. Il Pd costituisce il perno del futuro politico italiano, l’elemento trainante di una maggioranza che si impegni a fare uscire l’Italia dalla più grave crisi del dopoguerra.
Non a caso, la consapevolezza che un superamento democratico della crisi può passare solo attraverso il ruolo centrale del Pd spinge alcuni a tentare di affidare alla tecnica la soluzione dei problemi, e di lasciare alla politica un ruolo subalterno – gli ipotizzati governi di unità nazionale sarebbero per forza di cose non incisivi –. Una tecnocrazia senza fine che dichiara in anticipo l’irrilevanza del voto dei cittadini.
Il Pd conosce oggi con le primarie una dialettica di partito e di coalizione che vede concorrere diverse personalità e diversi progetti politici. E infatti la vera novità di cui gli italiani hanno bisogno è una politica che si faccia carico dell’interesse generale del Paese. E non una politica spettacolare e superficiale e plebiscitaria, postideologica e postculturale, demagogica e giovanilistica, che si accontenta di facili slogan e che non marca la differenza fondamentale fra destra e sinistra; una politica che si tiene le mani libere per il futuro, e non fa chiarezza né sui programmi né sulla disponibilità del Pd a entrare in un governo insieme con la destra. Questa è una politica vecchia; è la politica delle ambizioni personali e della propagazione di illusioni, a cui seguono sempre le delusioni. Se il rinnovamento è l’esigenza imperativa del presente, esso non coincide con una mera dimensione generazionale e anagrafica: al contrario, deve essere fondato su basi analitiche serie e su un’adeguata progettualità.
La vera novità è quindi la prospettiva che l’Italia sia governata non più da improvvisatori populisti né da pur valenti tecnici prestati alla politica, ma da un politico competente e legittimato dal consenso popolare come Pier Luigi Bersani; un politico che ha fra i propri obiettivi la fedeltà alla legalità costituzionale, con quanto ne consegue in termini di tutela dei diritti del lavoro, della salute, della ricerca scientifica e tecnologica, dell’ambiente e del patrimonio artistico e culturale; che progetta una credibile alleanza di governo per reinterpretare la cosiddetta Agenda Monti nella direzione dell’equità, della lotta contro le disuguaglianze sociali, dello sviluppo, e che, pur consapevole della complessità dei problemi che l’Italia ha davanti, è tuttavia capace dell’entusiasmo e del coraggio di accettare una sfida a cui avrebbe potuto legittimamente sottrarsi. Un politico che valorizza sia le esperienze e le competenze, sia le aspirazioni delle molte giovani energie attive del Pd e del Paese; e che ha il peso sufficiente in Italia e in Europa per far valere con realismo e autorevolezza le ragioni della politica anche rispetto a vecchie e nuove tentazioni tecnocratiche. Una candidatura, quella di Bersani, che non divide il Pd, che non lo snatura, che non ne mette a repentaglio il ruolo centrale, e che al tempo stesso si rivolge anche a un elettorato riformista e di centrosinistra diffuso, nel quale molti di noi, anche non vincolati dall’appartenenza al partito, si riconoscono in un comune impegno per il rinnovamento della politica.
Per questi motivi sosteniamo Pier Luigi Bersani nella competizione per le elezioni primarie, convinti che rappresenti l’opzione più opportuna in vista della ricostruzione della politica e dell’Italia.

Primi firmatari: Carlo Galli, Miguel Gotor, Aris Accornero, Massimo Adinolfi, Pasqualino Albi, Marco Almagisti, Giancarlo Angelozzi, Gian Mario Anselmi, Laura Artioli, Alberto Asor Rosa, Luisa Avellini, Luca Baccelli, Emilio Barucci, Andrea Battistini, Laura Bazzicalupo, Franco Benigno, Francesco Benvenuti, Carlo Bernardini, Salvatore Bragantini, Maurizio Calvesi, Giuseppe Campos Venuti, Giorgio Caravale, Maria Chiara Carrozza, Luciano Casali, Cesarina Casanova, Silvana Casmirri, Elena Cattaneo, Franco Cazzola, Michele Ciliberto, Pier Luigi Ciocca, Andrea Cristiani, Luisa Corazza, Paul Corner, Massimo D’Antoni, Philippe Daverio, Alberto De Bernardi, Mario De Caro, Marcello De Cecco, Filippo Del Corno, Carlo Dell’Aringa, Sandro De Maria, Rita Di Leo, Maria Clara Donato, Carmine Donzelli, Domenico Felice, Luigi Ferrajoli, Maurizio Ferraris, Giulio Ferroni, Maurizio Fioravanti, Simona Forti, Gigliola Fragnito, Paola Gaiotti, Dianella Gagliani, Anna Maria Gentili, Francesco Germinario, Andrea Giorgis, Carla Giovannini, Lucia Giovannini, Paolo Giovannini, Claudio Giunta, Vittorio Gregotti, Elda Guerra, Enrico Guglielminetti, Giandomenico Iannetti, Daniela Lombardi, Mauro Maggiorani, Alberto Malfitano, Marco Mancini, Marzia Marchi, Francesca Marinaro, Diego Marconi, Michela Marzano, Alberto Melloni, Pietro Modiano, Micaela Morelli, Michele Nicoletti, Serena Noceti, Giuseppe Olmi, Cecilia Palombelli, Paola Parma, Giorgio Pedrocco, Margherita Pelaja, Laura Pennacchi, Ugo Perone, Geminello Preterossi, Giovanna Procacci, Paolo Prodi, Assunta Piccini, Michele Prospero, Silvio Pons, Diego Quaglioni, Leonardo Rapone, Alfredo Reichlin, Andreina Ricci, Virginio Rognoni, Alessandro Rosina, Mario Giuseppe Rossi, Marco Santagata, Laura Savelli, Anna Scattigno, Vittorio Scotti Douglas, Giovanni Signorello, Walter Tega, Luisa Torchia, Mario Tronti, Francesco Tuccari, Nadia Urbinati, Giuseppe Vacca, Salvatore Veca, Giorgio Vecchio, Gianni Venturi

Comunicato Stampa

Il circolo P.D di Barcellona P.G., ”I Democratici ”, prende atto con disappunto dell’inerzia dell’amm.ne comunale in relazione alla declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’applicazione del c.d. “ patto di stabilità” alle regioni a statuto speciale.
La responsabilità dell’amministrazione comunale appare ancora più grave alla luce dell’interrogazione del 05.10.12 proposta dai consiglieri comunali del P.D., Orazio Calamuneri e Lorenzo Gitto, con la quale si è sollecitato a provvedere in ordine all’applicazione della prefata sentenza della Corte Costituzionale n. 178 dell’11.07.12 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37 comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 118 /11.
L’esecuzione del provvedimento della Corte Costituzionale avrebbe evitato le sanzioni stabilite per lo sforamento del c.d. “patto di stabilità” per l’esercizio di bilancio 2012 che, nel caso del comune di Barcellona P.G., consistono in una riduzione dei trasferimenti da parte dello Stato pari ad € 860.688,00, oltre le eventuali altre sanzioni erogande per lo stesso motivo.
Dispiace al Circolo P.D. “I Democratici” constatare che l’amministrazione, con una condotta più diligente, avrebbe potuto già scongiurare la sanzione de qua, così come ha già fatto il Comune di Messina.
E’ auspicio degli estensori del presente documento che per il prosieguo, considerato che nessuna amministrazione al mondo è depositaria di ogni scienza e di ogni verità, che l’esecutivo abbia l’umiltà e la responsabilità politica di collaborare e prendere nella giusta considerazione coloro i quali hanno la responsabilità politica di proposta nell’interesse della collettività.
Barcellona P.G. 09.11.2012

Patto sociale per crescita ed equità

Guglielmo Epifani  
Presidente dell’Associazione Bruno Trentin

Patto sociale per crescita ed equità

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Questi lunghi anni della crisi stanno cambiando profondamente assetti produttivi, condizioni sociali, interessi, aspettative e domande del nord del paese. Non serve ricorrere alle statistiche per comprendere che dietro i numeri della crisi, il calo del prodotto industriale e dei servizi, l’entità della disoccupazione, si cela la fotografia di quella parte storicamente più sviluppata e più ricca dell’Italia.

Il Mezzogiorno conserva ed esprime la realtà più pesante, soprattutto in termini di in occupazione giovanile e ritardi nella infrastrutturazione civile; ma è evidente che la caduta del prodotto interno,quasi 8 punti fino ad oggi dall’inizio della crisi, passa per il nord, per la condizione delle sue imprese,dei suoi servizi,delle sue filiere. Fa parte di questa trasformazione una crescente divaricazione nei risultati e nelle prospettive interne al sistema produttivo. Quello che colpisce di più infatti in un quadro generale di grandissima e crescente difficoltà, è la contrapposta situazione in cui si trovano le aziende che hanno innovato processi e prodotti, e si sono internazionalizzate investendo nei relativi nuovi mercati, e tutte le altre.

Le prime macinano utili e prospettive di crescita,assumono anche in Italia, programmano investimenti e acquisizioni. Le seconde arrancano, perdono quote di mercato, rinviano investimenti e piani di sviluppo e in molti casi pagano con crisi e chiusure la loro sottocapitalizzazione e gli errori fatti negli ultimi 10 anni. Le catene dell’indotto e delle subforniture e quelle dei servizi seguono la condizione dei mercati e dell’impresa di riferimento.

Più omogenea sembra la condizione dell’artigianato e delle piccole catene di consumo, dove però la scarsa reperibilità di credito, il suo costo crescente e la crescente contrazione della domanda mettono fuori dal mercato un numero sempre più alto di aziende familiari. Infine la crisi di un settore tradizionalmente anticiclico come quello delle costruzioni e dell’edilizia aggiunge, a differenza del passato, problemi ai problemi e apporta un differenziale negativo in termini di disoccupati e stasi degli investimenti davvero impressionante.

Tutto questo quadro ha delle conseguenze inevitabili su differenziali di produttività, politiche della formazione e del lavoro, ricadute sulla situazione territoriale,anche all’interno delle stesse provincie e delle stesse regioni. Prima del terremoto, ad esempio, una zona come quella di Modena presentava pochissimi problemi di carattere produttivo. Nel Veneto, pur in presenza di una contrazione dei livelli della produzione, si mantengono punti di assoluta eccellenza e dinamismo e in tutta la fascia pedemontana in Lombardia la situazione sembra ragionevolmente sotto controllo.

Un patto per la produttività e la crescita richiede quindi, tenendo presenti i bisogni vecchi e nuovi di questa parte del paese, più piani di intervento correlati e più ambiti di lavoro. l primi riguardano il bisogno di attivare, dentro la crisi e dentro la ricerca di una politica di bilancio rigorosa, politiche mirate di sostegno alla innovazione, di stimolo fiscale agli investimenti e di rilancio della domanda nei settori anticiclici.

Non va bene una politica dei due tempi, prima i tagli poi la crescita, perché abbiamo bisogno oggi di uscire dalla spirale depressiva in cui siamo caduti, dove le inevitabili scelte di rigore finiscono anche per ridurre ulteriormente domanda, consumi ed occupazione, deflazionando salari e investimenti. E se una parte di questa domanda passa per la capacità di spesa dei comuni, ci vogliono scelte di bilancio che non centralizzino di nuovo tutto svuotando di senso le linee e i bisogni dei fattori di sviluppo locale. Nel nord questo sembra il primo problema da correggere, unitamente all’esigenza di riaprire i flussi di credito verso imprese e famiglie, anche per evitare quel che si è verificato fino ad oggi e che ha costretto alla chiusura tanti esercizi e tante attività di piccolissime imprese spesso a carattere artigianale colpite, prima ancora che dalla crisi di domanda, dalle difficoltà di ordine finanziario.

Il secondo punto di un patto sociale deve muovere dalla ripresa di una politica industriale fortemente legata agli strumenti di programmazione regionale, fondata sul rapporto tra istituti di ricerca e innovazione, università e punti di formazione d’eccellenza, e il sistema delle imprese. Come ha suggerito per ultimo anche il governatore della Banca d’Italia, il campo delle energie rinnovabili e delle reti, quello della messa in sicurezza del territorio e delle città, la frontiera del risparmio energetico e della bioedilizia, rappresentano il cuore di una diversa e più moderna idea di politica industriale.

E proprio per questo la dimensione regionale è quella maggiormente adatta ad un governo efficiente delle scelte e dell’allocazione territoriale. Naturalmente bisogna evitare che le modalità dei tagli lineari decisi dal governo abbiano gli effetti negativi lamentati dagli enti locali e che si tengano assieme anche a questo livello le scelte del rigore e quelle della crescita.

Il terzo punto di un lavoro condiviso tra le parti sociali riguarda il tema della produttività. Qui scontiamo come paese il ritardo più pesante, soprattutto rispetto alla situazione tedesca nel corso del decennio che abbiamo alle spalle. Occorre essere chiari: il nostro ritardo si gioca soprattutto su due fattori, gli investimenti in innovazione e l’organizzazione della produzione, a partire dalla gestione dei tempi e della formazione del lavoro. Qualsiasi accordo deve quindi partire da questi terreni,come pure in molte aziende si è fatto e continua a fare. E bisogna rendere più efficiente tutta l’infrastrutturazione, soprattutto quella immateriale.

Uno spazio che andrà affrontato in maniera totalmente nuova riguarda la gestione delle crisi e delle ristrutturazioni in relazione agli strumenti disponibili. Con la inopinata riforma del lavoro verranno infatti a mancare una parte degli ammortizzatori esistenti e questo, in rapporto alle modifiche introdotte nella età del pensionamento, renderà superato lo schema del passato, quando gli ammortizzatori potevano accompagnare alla pensione i lavoratori coinvolti nelle crisi aziendali.

Dobbiamo prendere esempio dalla Germania, favorire politiche di solidarietà tra i lavoratori riducendo l’orario e favorendo percorsi di riqualificazione, con un diverso valore da attribuire all’esperienza, alla seniority, alla coesione sociale. Su questo aspetto faremo una delle verifiche dei mutamenti in corso.

Da molte parti si dice che con la crisi si supera quella cultura dell’individualismo proprietario, dell’identità ristretta e chiusa che ha contrassegnato l’ondata liberista anche nel nostro paese. Molti segnali ci dicono che qualcosa sta realmente cambiando e che si fa strada una idea più cooperativa dell’agire e della responsabilità individuale e anche un diverso rapporto tra il ruolo del pubblico e le nuove domande sociali prodotte dalla durezza della crisi. Se si guarda al terremoto e alle dinamiche sociali che ha determinato, effettivamente si coglie lo spirito di un possibile cambiamento. E la stessa maturità si coglie nel rapporto tra impresa e lavoro,con l’eccezione della Fiat, e nella volontà di condividere un progetto di fuoriuscita dalla crisi, senza rassegnazione o reciproche subalternità. La nuova Confindustria di Squinzi si vuole muovere in questa direzione e tutti dovrebbero apprezzare questa scelta e anche il linguaggio di verità e poco paludato che comporta. Ma ora, come pure Squinzi ci dice, tocca alla politica tornare a guidare i processi sociali e culturali necessari. Una politica di vera concertazione in Italia manca da quasi 12 anni.

Con la concertazione si superò la gravissima crisi del ’92, si stabilì il patto sulla politica dei redditi dell’anno successivo, si affrontò la prima riforma radicale, basata sul sistema contributivo, del sistema pensionistico, si costruirono le condizioni per l’ingresso nell’Euro. Con i governi di centrodestra si affermò un’altra strada, quella degli accordi separati,delle trattative clandestine,della divisione sindacale.

Gli anni del declino sono stati accompagnati dall’abbandono di una vera e trasparente concertazione. Per questo tocca alla politica decidere, e soprattutto al centrosinistra. Un patto per la crescita nel mezzo di una crisi come quella che viviamo sembra una sfida temeraria e ai limiti del possibile. Ma non lo è certo tornare a scommettere sulla coesione tra i soggetti della rappresentanza sociale e a porsi, come paese, l’obiettivo di una maggiore uguaglianza e giustizia sociale come fattore di crescita e di sviluppo magari riprendendo, attualizzandola, la grande suggestione del piano del lavoro. Nel 1949, nell’Italia di quel tempo, fu l’occasione per affermare che ci voleva una diversa politica economica per l’occupazione. Oggi potrebbe essere l’occasione per ridare speranza e fiducia ad un paese scosso e in profonda difficoltà.